\"\"I panni del leader sindacale, sotto l’impeccabile tweed e la civettuola borsetta porta-occhiali, non li ha mai dismessi. Per Fausto Bertinotti “la sinistra di lotta e di governo” è stato sempre un ossimoro molto difficile da digerire. Ci ha provato, ma la buona volontà non è bastata. Troppo alto il nobile e solido scranno di Montecitorio. Dà vertigini da labirintite. Il disagio è stato evidente, sin dagli attimi successivi ad un’elezione pur orgogliosamente rivendicata. Decisamente meglio, molto meglio, il vecchio, proletario e traballante palco da sindacalista.
 
L’aplomb istituzionale ingessa. La rivendicazione salariale infiamma. In questa dicotomia si consuma il disagio, che marca la differenza di taglio istituzionale, con gli illustri predecessori. A cominciare da quello di figure storiche della sinistra come Pietro Ingrao, Sandro Pertini e Nilde Iotti. Una presidenza che rischia di dimostrarsi scialba, anche più della precoce esperienza di Irene Pivetti, che dalla sua ebbe la vivacità dell’imbarazzo e il pudore della neofita.
 
L’insofferenza di Bertinotti è stata messa a dura prova dagli impegni programmatici di governo e da scelte che hanno inciso, non poco, sul peso politico della frangia a lui più cara del movimento sindacale: quella Fiom, che alla lunga ha perso lo storico ruolo di modello e apripista del rinnovo contrattuale, per arroccarsi in difesa di prerogative di settore percepite all’esterno come privilegi di categoria.
 
Aver lasciato il campo sguarnito, in una fase cruciale della vita politica nazionale, non ha fatto che accrescere la sensazione frustrante di non poter cavalcare la tigre della protesta. Essere super partes per lui, sempre chiaramente schierato da una parte ben definita, è una sorta di tortura istituzionale, più imbrigliante di quanto non credesse. E, come se non bastasse, l’inevitabile accordo sulla Cosa Rossa gli sta gettando alle ortiche anche la falce e il martello. I gloriosi strumenti da lavoro, diventati identità e icona del comune sentire comunista.
 
Sarà per la “erre moscia” alla Gianni Agnelli o per una distinta e apprezzata signorilità, poco gli si addice la furia accecante di un novello Sansone. Però, la smania da opposizione e la sindrome da perenne contestazione sono diventate l’insolita cortina, che offusca un’evidente constatazione: “Nessuno come Prodi è stato attento alle istanze di Rifondazione e mai più nessun governo lo sarà altrettanto”. Lo ha sottolineato Rosy Bindi, una senese che con la sinistra ha qualche familiarità.
 
di Antonio V. Gelormini

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