Esistono quattro tipi di malgoverno, spesso combinati fra loro: la «tirannia», della quale la storia è foriera di esempi; l’eccessiva «ambizione», che spinse i tedeschi ad autodefinirsi razza superiore e ad ambire al dominio d’Europa; la «inadeguatezza», come testimoniano le vicende del tardo impero romano; e, infine, la «ottusità», che svolge, ancora oggi, un ruolo di primo piano nell’attività dei governi.
Insegna lo storico americano Barbara Wertheim Tuchman (autrice del celebre libro “La marcia della follia. Dalla guerra di Troia al Vietnam”) che caratteristica peculiare della «ottusità» è quella di valutare le situazioni sulla base di idee preconcette, ignorando o addirittura respingendo tutto ciò che può risultare contrario al loro contenuto, che poi equivale ad agire secondo i propri «desideri», senza tenere minimamente conto della realtà dei fatti.
Ottusità è anche il rifiuto di imparare dall’esperienza passata, evitando, quindi, di rifare gli stessi errori.
Se è vero – come è vero – che la solidità dell’economia di uno Stato dipende in massima parte dalla durata dei suoi governi, non si comprende perché in Italia, all’indomani dell’insediamento di un nuovo governo (sia esso di destra o di sinistra), chi lo compone – più di chi lo oppone – pensa subito a come metterlo in crisi piuttosto che a trovare un accordo, un’intesa duratura con le altre forze.
Il potere corrompe, e di ciò ormai siamo perfettamente consapevoli. Siamo, però, meno coscienti del fatto che esso genera «follia»; che il potere di decidere spesso provoca la latitanza della riflessione.
L’arroccamento mentale su certe posizioni è un terreno su cui la «follia» cresce rigogliosa. I detentori del potere – usa dire il famoso statista statunitense, di origine tedesca, Henry Kissinger (non molto tempo fa invitato da Papa Benedetto XVI a far parte del suo gruppo di consulenti di politica estera) – non imparano nulla che sconfini dalle loro convinzioni personali, da lui definite «il capitale intellettuale che spenderanno durante la permanenza in carica».
Al primo posto, tra le forze che alimentano la «follia del potere», c’è la «sete di potere», che Tacito definì «la più scandalosa delle passioni» e che, potendo essere soddisfatta soltanto dal dominio sugli altri, trova nella politica il suo «habitat» naturale.
Al di fuori della politica, l’uomo ha fatto cose grandiose: ha debellato molte malattie, è riuscito a sfruttare il vento e i raggi solari per produrre energia, ha inventato il benessere.
Una volta John Adams, secondo presidente degli Stati Uniti d’America, ebbe a dire che «in tutte le altre scienze si sono registrati notevoli progressi, ma non in quella del governo». Gli americani pian piano stanno imparando la lezione. Noi, invece, non abbiamo ancora aperto libro.
I nostri politici sovente giustificano le loro decisioni chiaramente sbagliate con l’impossibilità di fare altrimenti. Possiamo scongiurare una simile «stupidità difensiva», come la definì George Orwell?
La riforma della legge elettorale non basta. La possiamo cambiare e ricambiare quante volte vogliamo. Risulterà sempre imperfetta.
Nella ricerca dei nostri governanti migliori, dovremmo forse sottoporre prima di tutto i candidati ad un esame del carattere per controllarne il senso di responsabilità ed il contenuto di «coraggio morale».
Criteri analoghi seguivano gli abitanti di Lilliput, quando dovevano scegliere i servitori dello Stato. «I Lillipuziani sono convinti» riferì Gulliver «che la provvidenza non abbia mai inteso fare della gestione della cosa pubblica un mistero penetrabile soltanto da pochi geni eccezionali di cui non nascono nemmeno tre esemplari ogni generazione. Credono, al contrario, che virtù quali la verità, la giustizia, la temperanza e affini siano alla portata di chiunque e che la loro pratica, assistita da esperienza e buona volontà, basti a rendere chiunque adatto a servire il suo Paese».
Queste virtù – insegna ancora la Tuchman – saranno anche alla portata di tutti, ma in un contesto elettorale (verso il quale ci stiamo avviando) hanno poche probabilità di vittoria contro chi si presenta armato di «chiacchiere».
Il problema, dunque, non sta tanto nell’insegnare ai politici come si governa (il progetto di Platone, incentrato sull’allevamento oltre che sull’educazione, è sempre rimasto sulla carta; in Cina, la formazione di specialisti, quali i mandarini, diede risultati modestissimi; il perfezionismo prussiano lievitò la sete di potere, che portò la Germania alla catastrofe) quanto nell’educare gli elettori a riconoscere e ricompensare la «integrità morale» e a respingere i suoi surrogati.
I tempi dell’ateniese Solone sono purtroppo lontani. La sua «saggezza» ancor di più. Dopo la sua (positiva) esperienza di governo, fece una cosa straordinaria, che probabilmente nessun altro governante ha mai ripetuto (certamente non in Italia): acquistò una nave e, con la scusa di mettersi in viaggio per conoscere il mondo, andò in volontario esilio per dieci anni.

Alfonso Masselli – Capitanata.it

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