Così “Medicina e Persona” – libera Associazione Nazionale fra Operatori Sanitari – intitola il comunicato stampa del 14/11/08, giorno seguente della sentenza che ha dato il triste epilogo alla vicenda Englaro.
Non esiste in Italia una legge sul testamento biologico ( e di questo ognuno deve assumersi le proprie responsabilità) e sull’eutanasia per cui quello di Eluana è un omicidio perpetrato per via legale, ottenuto cioè con l’autorizzazione dei giudici, che ancora una volta, hanno fatto proprio il potere legislativo (ovvero di fare le leggi) che la costituzione attribuisce al parlamento, mentre la magistratura ha semplicemente il compito di applicarle. La cosa è tanto più grave in quanto, con questa sentenza si impedisce l’esercizio della carità, perché c’è chi si è preso cura di lei e continuerebbe a farlo. Nella lunga storia della medicina il suo sviluppo è diventato più fecondo quando, in epoca cristiana, è cominciata l’assistenza proprio agli “inguaribili”, che prima venivano espulsi dalla comunità degli uomini “sani”, lasciati morire fuori dalle mura della città o eliminati. Chi se ne fosse occupato avrebbe messo a rischio la propria vita. Per questo chi cominciò a prendersi cura degli inguaribili lo fece per una ragione che era più potente della vita stessa: una passione per il destino dell’altro uomo.
Come si identifica una società che afferma la cultura della morte per un presunto bene dell’uomo? A voi la risposta.
 Concludo riportando una frase di Mons. Luigi Giussani, fondatore del movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione.  
 
«Capire le ragioni della fatica è la suprema cosa nella vita,
perché l’obiezione più grande alla vita è la morte e l’obiezione più grande
al vivere è la fatica del vivere; l’obiezione più grande alla gioia sono
i sacrifici… Il sacrificio più grande è la morte» (don Giussani).
 
 Di Fabio Quitadamo
(CAPITANATA.IT)

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