La poesia non è mai un paese disperato. Angelo Maria Ripellino (1923-1978) lo sapeva bene: l’atto poetico, anche quando è attraversato dai segni più angosciosi, è sempre uno slancio verso la vita, perché presuppone un progetto, la costruzione ideale e materiale di una testimonianza. O di una ribellione. Al di là di ogni enfasi sul ruolo del poeta come guardiano del segreto che abita le parole, sulla sua volontà di scrivere (anche controvento) per non morire del tutto, c’è, lampante, luminosa, la verità di un uomo che non vuole concedere alla morte l’ultima battuta nella recita. E recita per Ripellino non ha un significato deteriore: la sua sostanza di critico teatrale di impareggiabile, mistificante maestria, lo conferma. Nella letteratura italiana non esiste un poeta più… Oddio, stavo per fare una di quelle affermazioni categoriche che piacciono ai critici mili(tanti, troppi). Stavo per dire che un autore così pervicacemente inattuale la poesia nostrana non l’aveva mai conosciuto. Forse non è così, anche perché cosa sia attuale in un poeta non l’ho capito ancora. Lo ammetto: Ripellino è per me “un enigma mobile”; lo sarà sempre. La sua opera intera – che siano le poesie cariche di incendi metaforici o i saggi costellati di trappole e doppi fondi linguistici – è fatta apposta per lasciare di stucco, per far alzare il naso ai lettori come i serpenti rimbambiti dei fachiri. La sua scrittura è uno splendido imbroglio, lo sgambetto di un filo d’erba a metà campo, un barbatrucco: all’inizio la meraviglia prevale sulla simpatia. Ma il vero inganno è proprio qui, in questa impressione da trompe-l’oeil: attuale e inattuale, autentico e inautentico non sono in lui entità separabili. Ripellino va compreso, o frainteso, così com’è, con la sua sincerità che raggira, il suo confessarsi in falsetto, i suoi bisbigli nell’orecchio da cui non sentiamo. La maledetta verità rivendicata dalla poesia in lui c’è eccome: la realtà del corpo nello sfacelo della malattia (la tubercolosi e il diabete e il cuore schiantato) sono il nucleo del suo discorso. Anche il lettore meno avveduto lo capisce. La fisiologia del dolore è un argomento centrale della sua riflessione, ed è piegato con violenza alle esigenze della letteratura che fa il verso al mondo. Manca in lui il cosiddetto “abbandono lirico”, l’effusione sentimentale che cattura gli occhi assonnati; vi troviamo un progetto poetico, non un banale impulso, un’intenzione accesa di senso, non un tuffo a occhi chiusi. Ecco la chiave che fa scattare la serratura: il poeta non deve dare confidenza al “senso comune”, ma trovarne uno proprio, che spesso non percorre le strade asfaltate, che rassicurano l’ascoltatore e gli fanno credere che la chiarezza coincida con l’autenticità (grande fregnaccia).
Qui non vorrei fuorviare chi legge: Ripellino non crede che esista un solo modo di fare poesia; semplicemente riconosce il suo nella necessità vitale dell’artificio. Il suo rifiuto del parlare in sordina, che i manovali della critica considera(va)no una necessità (ché bisogna scrivere a bassavoce, rifiutare l’enfasi come una bestemmia in chiesa, gridare il più piano possibile) passava per un posa da rigattiere di lusso dell’erudizione. Gli accademici del suo tempo dovevano vederlo come una sorta di genio siculo delle tre carte: lo studioso, il fascinoso filologo delle letterature slave, che si mette il berretto a sonagli per farci credere di essere un poeta.
 
Slavista! mi gridano donne con frappe sul capo
e con fettucce e colombe e fleurettes e crauti e babau.
Slavista! mi assalgono omini violacei
con scròfole e maschere e nasi di Ostenda.
Slavista! mi strilla un rez-de-chaussée spelacchiato
con pesciolini semimorti sul davanzale.
Slavista! mi insultano un groom d’ascensore
e un albume molliccio dalle mani sudate.
 
Chiedo perdono. È deciso. La prossima volta
farò un altro mestiere.
 
(Da Notizie dal diluvio, 1969).
  
L’avevano frainteso, ma senza scalfire la sua certezza di fare poesia qualunque cosa scrivesse. È lui stesso a precisare che non c’è divario, di stile e intenti maliosi, tra i suoi saggi, i suoi racconti, le sue liriche: “allo stesso modo diramano le loro radici nell’humus del teatro, della finzione pittorica, allo stesso modo ricorrono alle duplicazioni e ai camuffamenti”. (Di me, delle mie sinfoniette, 1975, breve testo in cui Ripellino chiosa se stesso, alla maniera di Valéry e Eliot). Lo avevano frainteso in molti; anch’io, nel mio microscopico di letturista di versi. La riedizione per Einaudi delle tre sillogi che lo scrittore ha pubblicato dal 1969 al 1976, insieme alle Poesie prime e ultime edite da Aragno nel 2006, testimoniano che il vento della valutazione critica sulla sua opera è cambiato. Forse in modo troppo deciso. Perché le sue poesie pretendono il malinteso dello svisamento, tanto sono piene di nascondigli, scatti di molle scherzose, conigli che fanno Bu!, come possono farlo i conigli, zigando. Se il lirico è radicale nel fare della poesia un terreno libero per i giochi dell’estro, il saggista squaderna il suo universo inventivo in un racconto che salda magia e filologia, memoria e immaginazione, storia e deformazione fantastica: è la scrittura che imita la realtà o non piuttosto il contrario? Nel 1973, Ripellino pubblica Praga magica, un viaggio stupefatto nell’anima buia della “città vltavina”. La sua Praga è una foresta di pietra popolata di ombre e di segreti: scrittori, personaggi di romanzo, spettri ubriachi di artisti, poeti, studenti sdruciti che si specchiano in un boccale di birra; un bailamme di vite morte che vorticano nella notte, sull’orlo del niente. Dieci anni prima aveva dato alle stampe Il trucco e l’anima, filologico atto d’amore per il teatro russo sgranato attraverso i suoi grandi registi: basterebbe il bellissimo titolo del libro a dichiarare la poetica “totale” del suo autore, che considera la scrittura in sé come un fenomeno estetico, in cui gettarsi senza rispetto dei cosiddetti generi: la prosa, il racconto, la poesia, le corrispondenze giornalistiche*, le lezioni universitarie che rapivano gli studenti-spettatori. Con tanto di marameo ai cultori delle distinzioni grette.
La malattia del corpo, quella del mondo. Se la scrittura è per l’autore palermitano un territorio aperto, in cui una fune invisibile pare tendersi “dalla Martorana alla cupola del San Nicola di Praga”, e da Giovanni Meli a Chlebnikov, il tema biografico si fonde con la presenza dell’uomo nella storia.
L’ignavo non soffre i desolamenti di Praga
(Da Sinfonietta, 1972.) I desolamenti sono quelli della primavera praghese schiacciata dallo stivale sovietico. Praga è la città del suo pensiero, il luogo in cui gli scrittori e i poeti che ama di più si sono scaldati al soffio dell’immaginazione: Kafka, Hrabal, Holan e molti altri; tutti hanno fecondato il suo spirito critico, tutti hanno posato un’ombra sul suo cuore di poeta aggrappato alla vita con le ultime sillabe. È una di quelle che Ripellino chiama “invarianti”, i temi ricorrenti del suo impegno letterario. Forse il tema per eccellenza: il desiderio di appigliarsi alla luce prima che il sipario (altro simbolo di vita-morte) cada “come una ghigliottina”. In tal senso, le metafore prese dal teatro sono numerose.
 
…non voglio essere ancora murato, non voglio
piegarmi come un sassòfono dentro una nicchia,
precipitare nel bàratro come una tròttola.
Fingerò di non trovare la manica del cappotto
al momento in cui l’oro del teatro diverrà scialbo
e un servo in livrea mi toccherà sulla spalla,
cortesissimamente dicendomi: Schluss.
 
(Sinfonietta, 1972).
 
 
 
La morte che si avvicina lanciando le sue allusioni malefiche, si può tenere a bada solo con gli schinieri di carta della poesia, nella speranza che il nome / fra tanto oblio sopravviva (Lo splendido violino verde, 1976). Il desiderio della vita coincide con quello del teatro come espressione vitalistica: perciò la poesia stessa è un palcoscenico pullulante di creature grottesche: nani, omini di Magritte con la bombetta, primedonne fatali bistrate come baldracche, che chiamano all’ultimo supplizio carnale il poeta morente dal respiro bucato. Lui, a sua volta maschera fra le maschere, che sia idealmente chiuso nella buca del suggeritore o in platea o nascosto dietro le quinte, in ascolto della vita altrui. Ripellino e i mille mascheramenti che sceglie per il suo luminoso congedo: Vanellino, Scardanelli, Gobelino, Solferino, Abellino. Lo scrittore cambia nome perché la morte non lo trovi, perché la messinscena continui con un’altra voce, con un cappotto più caldo, con un polmone nuovo. Vita-amore, vita-luce, vita-miele, che come lo zucchero è mortale per il poeta diabetico (sono tante le similitudini tra i dolci e il male, in una serie di rimandi al paradosso tragico della “dolce morte”: malvagio come lo zuccherolo zucchero molesto dell’estate; il miele è male etc.). Nella lirica 70 della Sinfonietta, Ripellino cattura l’immagine di un ipotetico sogno del pasticciere, scandendo tra le dita un rosario di dolcezze mortifere.
 
Ciambelle di arcani velieri, barchette di zucchero,
onde-spumoni, fluttuanti biancomangiare,
dune croccanti, torroni di cabine,
berlingozzi di nuvole, búccheri,
mele stregate con mascherine,
piogge di alchèrmes, obese torte floreali,
scappate dai banchi della fiera di Heist,
omùncoli frolli dal pancino di miele,
chiocciole di marzapane, capanni-pastiere…
 
L’elencazione capovolta di un Rabelais che voglia uccidere il suo Pantagruele. La smisurata ambizione del buio che vuole zittire il poeta non può avere come risposta la compostezza di un lamento da poesia crepuscolare: dico di Gozzano o di Corazzini, che avevano scelto la strada del tono dimesso, della sottovalutazione del proprio talento di uomini e scrittori. No, il piano della morte merita una risposta a squarciagola, lo sberleffo della parola in maschera, la lingua di Menelik della carnevalata: ed ecco gli anacronismi verbali, le rime improprie (O vita, o Hanna Schygulla, / sciantosa di varietà, sulla riva / del Nulla; e ancora: fiamme-bailamme; rime, queste sì, di sapore gozzaniano come quella Nietzsche-camicie); le associazioni espressionistiche: la luce-Goya, la luce sangria, la notte eresiarca, il vento barabba; le acutezze barocche; i nomi pescati dal fondo della memoria erudita. L’ultimo scherzo fatto alla morte è il più atroce. Possiamo immaginarlo: lei che segue il poeta dalla culla, sa che è arrivato il momento di prendergli la mano; gli chiede il suo nome: Ripellino lo dice, ma la commare secca è gabbata, perché non ha imparato il russo. La morte stessa è lo scherzo di ombre che sfarfallano al vento dell’ultima stazione. Perché grande è la buffoneria del dolore.
 
* Per L’Espresso.  di Canio Mancuso
 
      
Angelo Maria Ripellino,
Notizie dal diluvio, Sinfonietta,
Lo splendido violino verde,
Einaudi, Torino 2oo7, pp. 347, € 16,50. 

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