Le business school tradizionali risolvono il problema in parte, perché hanno una barriera economica all’ingresso e parlano solo alla fascia più alta della popolazione. Servono modelli innovativi e flessibili che favoriscano un patto tra scuole, studenti e aziende.

 

A cura di Marco Noseda, Chief Strategy Officer di Cariplo Factory

 

Dal 2004 al 2019, il “mismatch” tra domanda e offerta di lavoro, cioè la mancata corrispondenza tra i requisiti richiesti dalle aziende e le competenze o qualifiche offerte dai lavoratori, ha subito un progressivo peggioramento. Con conseguenze drammatiche: in 15 anni il tasso di disoccupazione è passato dal 6% a oltre il 10% e le difficoltà a trovare le risorse necessarie si sono alzate a livelli record. Secondo un recente rapporto di Randstad Research, il centro di ricerca sul lavoro del futuro, alla fine del 2019 la cosiddetta “curva di Beveridge” che rappresenta il rapporto tra posti vacanti e disoccupazione ha toccato il punto minimo dell’efficienza del mercato del lavoro italiano.

Un circolo vizioso da cui uscire è sempre più complicato perché a mancare non sono solo le competenze legate al digitale, all’innovazione e allo sviluppo, ma la capacità di rispondere ai bisogni delle aziende. La scuola e il mondo del lavoro hanno smesso di dialogare da anni e oggi parlano linguaggi completamente diversi, più si allarga il divario tra domanda e offerte e più diventa difficile uscire da uno stallo che nel lungo termine potrebbe avere conseguenze importanti sulla crescita economica e sociale del nostro Paese.

I due problemi delle business school

Per aggregare le competenze richieste dal mondo del lavoro e contenuti di alto livello, esistono le business school. Pur restando un punto di riferimento imprescindibile nella formazione manageriale, a mio avviso riscontrano oggi due ordini di problemi. Il primo è che sono difficilmente accessibili perché presentano un’importante barriera economica all’ingresso che tende a escludere una larga fascia della popolazione, fatta eccezione per le borse di studio e l’accesso a finanziamenti agevolati. Il secondo riguarda l’obiettivo di questi corsi: nonostante il mercato sia tutt’altro che arido, le business school puntano a formare sì i profili ricercati dalle aziende, ma solo a un livello medio/alto. Ancora una volta, a mancare sono le competenze tecniche richieste per tutte le altre posizioni. Che peraltro presentano una domanda più alta.

Siamo di fronte a un paradosso difficile da sciogliere perché apparentemente gli strumenti per azzerare, o quanto meno ridurre, il gap tra domanda e offerta di lavoro ci sono, ma nella realtà dei fatti sono in grado di coprire solo una ridotta parte della richiesta da parte del mondo professionale.

Per rispondere in tempi rapidi a un problema strutturale servono strumenti duttili e flessibili, serve guardare a una formazione non convenzionale e investire nella relazione tra aziende e scuole, affinché le esigenze specifiche del mercato siano ascoltate e accolte.

I modelli internazionali: quando le scuole investono sugli studenti

Una strada per raggiungere questo risultato potrebbe essere quella di replicare, adattandoli alla realtà italiana, modelli di successo come la Lambda School, una scuola americana che investe capitale sul successo dei propri studenti, preparandoli a carriere nel mondo dell’innovazione (i corsi insegnano data science, back end development, web development). Gli studenti possono iniziare a restituire il prestito soltanto quando iniziano a lavorare e guadagnano almeno 50mila dollari l’anno. Qualora gli studenti non trovassero lavoro, non sono tenuti a restituire quanto investito per la loro formazione. Il modello è decisamente virtuoso. La scuola stessa deve sempre migliorarsi, modificando i propri corsi alle esigenze reali di mercato, affinché possa essere reale specchio del mondo del lavoro.

I corsi della scuola, della durata dai sei ai nove mesi, possono essere seguiti gratuitamente da remoto da chiunque: sono tenuti da docenti che hanno maturato esperienza in realtà come la Nasa, Google, Apple e in atenei come Stanford University. L’unica condizione per accedere è quella di sottoscrivere un patto tra lo studente e la scuola, alla quale verrà versata una percentuale dello stipendio una volta raggiunta la soglia dei 50mila euro l’anno.

Questo modello è stato sposato anche da un colosso come Amazon, che insieme a Lambda ha messo in piedi una scuola di formazione per sviluppatori e ingegneri informatici. Ma le aziende in scia al colosso dell’e-commerce sono già diverse decine, anche in Europa.

Adottare un sistema in cui si individuano le professionalità richieste dal mercato e si crea una rete di formazione che investa sugli studenti potrebbe portare una svolta importante in Italia, dove di certo non mancano i talenti. La domanda c’è e le persone che – con la giusta formazione – possono accoglierla da professionisti ci sono. Bisogna “solo” rivoluzionare il nostro modello formativo, renderlo meno elitario e più aderente alla reale necessità delle imprese che costituiscono il mercato del lavoro. Una sfida gigantesca che, pure, non possiamo permetterci di rimandare. Cosa stiamo aspettando? Il sistema dell’innovazione sviluppato oggi in Italia ha tutte le connessioni per attivare le competenze necessarie.