Nel 2010 una mostra alla Fondazione Arnaldo Pomodoro presentava una panoramica piuttosto esaustiva sulla Scultura Italiana del XXI secolo. Il testo in catalogo, a cura di Marco Meneguzzo, poneva una riflessione interessante sulla possibile estinzione di tale categoria espressiva: giunta ormai al completo affrancamento dai materiali nobili ed eterni, quali il marmo e il bronzo, la scultura contemporanea sembra aver pienamente metabolizzato la vocazione all’effimero propria della nostra società, scegliendo di avvalersi di materiali semplici, quotidiani e, soprattutto, strettamente autobiografici.

Tale condizione costituisce l’approdo finale di un lungo percorso di rinnovamento del linguaggio scultoreo, volto al raggiungimento di una «scultura leggera» e già rivendicato a partire  dalle avanguardie artistiche del XX secolo: se futuristi e dadaisti introdussero il concetto di polimaterismo, cubisti e costruttivisti per primi (quali Archipenko, Tatlin, Gabo e Pevsner) rivoluzionarono il rapporto tra spazio e materia, conferendo al “vuoto” un ruolo attivo e vincolante e ponendo così le premesse per la nascita di una nuova pratica artistica, l’installazione, che porta alla definitiva inclusione dello spettatore nello spazio dell’opera.

Partendo, dunque, da queste premesse, la mostra “Impronte” riunisce le installazioni di cinque artiste che declinano, ognuna secondo il proprio linguaggio, questa estetica della leggerezza, giocata sulla trasparenza, sulla fragilità e sulla semplicità dei materiali utilizzati e rivelatrice di una sensibilità spiccatamente femminile nel saper cogliere e raccontare gli aspetti più poetici del reale.

C’è un’assonanza materica, cromatica, tattile e visiva, che accomuna le opere di Claudia Canavesi, Federica Ferzoco,  Marianna Gasperini, Eva Reguzzoni, Elisa Rossini. C’è in tutte loro la necessità di soppesare il vuoto, la volontà di dare valore all’assenza, il bisogno di sviscerare la realtà per giungere alla sintesi estrema, alla consapevolezza di poter ricondurre la molteplicità del reale ad un alfabeto essenziale composto da elementi primi e forme primordiali, a un delicato gioco di contrapposizioni tra bianco e nero, luci e ombre.

Questa esigenza “ordinatrice”, questo tentativo di comprensione del reale racchiude in sé una duplice chiave di lettura. Innanzitutto emerge nella pratica scultorea delle cinque artiste il ricordo di una ritualità ancestrale, sia nelle modalità operative, sia nella scelta di materiali naturali, appartenenti alla propria quotidianità, estrapolati dall’intimità del proprio vissuto, ma che contemporaneamente racchiudono reminescenze di una gestualità antica e domestica, propriamente femminile: Elisa Rossini ricama a punto croce, con del filo rosso, i propri traguardi da escursionista su dei soffici cuscini bianchi, per Eva Reguzzoni le tracce impresse da una garza sottile su un’altrettanto sottile carta velina rappresentano la trama e l’ordito della nostra esistenza, mentre con la stessa garza Federica Ferzoco realizza dei calchi umani a dimensioni naturali, annullando la fisicità corporea e dando vita a leggiadre presenze sospese nel vuoto.

Tuttavia, se nel saggio sopra citato, l’autore giunge alla conclusione che la principale caratteristica della scultura contemporanea consista, appunto, nel suo offrirsi come narrazione privata, “diario” di vita dell’artista, ebbene, tale aspetto rappresenta, in “Impronte”, un punto di partenza, e non la finalità ultima con cui queste opere sono state create. Quest’ultime, infatti, rifuggono la tendenza individualista e, come anticipato, sono concepite come strumento pratico di lettura ed interpretazione del reale, fuori da sé.

Lo sguardo dell’artista, dunque, non si inabissa nelle profondità del proprio essere, ma si lascia guidare, come ipnotizzato, dai misteri e dalle microstorie che governano l’universo intero.

Ecco che allora l’artista abbandona l’approccio narrativo e adotta, invece, un meticoloso metodo scientifico, per offrire un’analisi quanto mai rigorosa del mondo esterno: anatomia, biologia, matematica, geometria e perfino genetica sono i territori esplorati dalle artiste.

Con una ricerca per certi versi affine, Claudia Canavesi e Federica Ferzoco osservano leggi, regole geometriche, rapporti matematici e proporzionali, simboli e archetipi che governano da sempre le forme naturali e che, sorprendentemente, trovano corrispondenza nelle forme architettoniche costruite dall’uomo o nella stessa struttura cellulare del suo corpo. Questo procedere per scomposizione, questo tentativo di sfrondare la molteplicità per giungere all’essenza, è assunto anche da Marianna Gasperini nelle sue installazioni, dove la corporeità dell’uomo risulta frammentata in particolari anatomici, deformata da un uso espressionistico del chiaroscuro o esaltata dallo sfarfallio della luce che gioca sulle piccole impronte di vetro posate per terra. La poetica del frammento torna anche nelle opere di Eva Reguzzoni che, dal suo lavoro come disegnatrice archeologica, eredita, invece, una predisposizione innata a razionalizzare lo spazio racchiudendolo entro il rassicurante perimetro di un modulo quadrato che, progressivamente, da rigida griglia geometrica si tramuta in una sagoma dai contorni sfuggenti, leggera nel segno che lascia impresso, sempre più in armonia con il vuoto che la circonda. Assume, invece, la solennità di un rito sacro l’analisi a cui Elisa Rossini sottopone tutto ciò che incontra nel suo cammino, persone, oggetti, situazioni, servendosi della “conta” numerica, annotata graficamente o scandita ad alta voce, come modalità privilegiata del suo processo artistico – conoscitivo.

La molteplicità e la differenza di tecniche e mezzi espressivi che convivono in questa mostra sono specchio del mutato concetto di Scultura, che antepone all’azione plastica generatrice di forme, l’urgenza di veicolare una Ricerca di tipo concettuale. In questo caso di una vera e propria ricerca così come la si intendeva ai tempi della scuola: Dati, Osservazione, Procedimento, Conclusione.

Perché, dunque, definire le loro opere “Impronte”? perché, come tali, ognuna è rivelatrice dell’identità e della mano dell’artista, unica ed inconfondibile; perché l’impronta è sinonimo di calco, di traccia, di segno, di un repertorio gestuale che manifesta un’istintiva attrazione verso la sperimentazione materica. Infine perché l’impronta è l’impressione della realtà percepita, interpretata e restituita da Claudia, Federica, Marianna, Eva ed Elisa. Un’impronta, più impronte, che insieme disegnano un cammino, indicano la strada da seguire per intravedere quei fili invisibili con cui è cucita la realtà che indossiamo ogni giorno. Perché, come direbbe Paul Klee, questo fa l’artista contemporaneo: non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non lo è.

 

Manuela Ciriacono

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