Milano – Ancora oggi, 1 italiano su 2 (49%)[1] ritiene che le persone con disabilità siano svantaggiate nel mercato e nei luoghi di lavoro. I dati lo confermano: solo il 32,5% di queste in età lavorativa (15-64 anni) risulta occupato, contro il 58,9% della media nazionale[2].
Eppure, il mercato del lavoro italiano sta vivendo una fase di profonda trasformazione, che sta spingendo le imprese verso una maggiore maturità in materia di diversity & inclusion e, in particolare, verso un approccio più consapevole all’inserimento delle categorie protette.
A evidenziarlo è Grafton, brand globale di Gi Group Holding specializzato nella ricerca e selezione di profili professional, che fin dal suo ingresso in Italia ha sviluppato un’expertise interna dedicata ai progetti e ai processi di selezione regolati dalla Legge 68/99.
Secondo Francesco Manzini, Amministratore Delegato di Grafton, a partire da studi realizzati da Grafton e dalla Holding, sono cinque i motivi per cui le organizzazioni dovrebbero andare oltre la semplice conformità normativa e investire nella creazione di ambienti realmente inclusivi e attrattivi per le categorie protette.
- La spinta valoriale delle nuove generazioni
Gen Z e Millennials, principali interlocutori di Grafton, portano nel mondo del lavoro una sensibilità marcata verso i temi della diversity & inclusion, trasformandoli in un criterio determinante per valutare la reputazione e l’attrattività dei brand. Secondo uno studio Grafton[3], infatti, il 65% dei giovani non accetterebbe di lavorare in un’azienda i cui valori non siano allineati ai propri. In un contesto in cui la ricerca e selezione è sempre più competitiva, non è più pensabile non strutturarsi in ambito DE&I, che include anche le persone con disabilità.
- Un nuovo modo di intendere il lavoro
Per il 62% dei giovani intervistati, il lavoro è prima di tutto una fonte di soddisfazione personale3. Investire nello sviluppo professionale delle persone appartenenti alle categorie protette – valorizzandone competenze e potenziale, attraverso percorsi di carriera strutturati che sappiano motivare questi professionisti – diventa quindi imprescindibile.
- Il talent shortage e la ricerca di nuovi bacini occupazionali
La crescente carenza di talenti spinge le aziende a guardare verso segmenti della popolazione con elevati tassi di disoccupazione, come donne e giovani. Grafton sottolinea come anche le categorie protette rappresentino un bacino di risorse prezioso da coinvolgere attivamente per garantire la sostenibilità del mercato del lavoro. Oggi, infatti, il 60% delle aziende dichiara di voler attingere a talenti provenienti da settori sottorappresentati o disoccupati di lungo periodo (52% a livello globale)[4].
- L’innovazione non dà alibi
Oggi il 47% delle aziende sta lavorando per semplificare i processi di candidatura, introducendo modalità più accessibili che riducono le barriere all’ingresso4. Allo stesso tempo, lo smart working si è affermato come una leva di inclusione, ampliando le opportunità di partecipazione per le persone con disabilità. L’innovazione, dunque, rappresenta una risposta concreta al rischio di perdere professionisti e di escludere competenze preziose dal mercato del lavoro.
- Una questione anche economica
Le imprese non possono più permettersi di non valorizzare il potenziale delle proprie persone, né di limitarsi a pagare l’ammenda prevista dalla normativa. Serve un approccio strutturale e lungimirante, che parta dalla selezione e arrivi fino alla definizione di percorsi di crescita e sviluppo realmente inclusivi.
“Oggi le aziende che si limitano a rispettare la normativa rischiano di inserire persone appartenenti alle categorie protette senza offrire loro il supporto necessario, riducendo così il potenziale e il valore che potrebbero apportare all’organizzazione. Al contrario, investire in strategie mirate alla valorizzazione e alla retention di questi professionisti consente alle imprese di accedere a competenze chiave, rafforzare la propria cultura aziendale e trasformare l’inclusione in un vero vantaggio competitivo.” – commenta Manzini.
Infatti, la questione non riguarda soltanto l’attraction, ma anche la retention. I profili qualificati appartenenti alle categorie protette, di cui si occupa la divisione di Grafton, sono oggi altamente ricercati, poiché le aziende più lungimiranti mirano a coniugare il rispetto della Legge 68/99 con l’esigenza di integrare risorse realmente competenti. In questo scenario, i professionisti e le professioniste con disabilità che possiedono competenze tecniche specializzate rappresentano un target particolarmente appetibile, ma anche una sfida sul piano della valorizzazione e della fidelizzazione.
“Per questo motivo – prosegue Manzini – è necessario definire politiche chiare in materia di diversity, garantire strumenti e condizioni di lavoro adeguati, offrire percorsi di formazione e crescita e prestare attenzione concreta al benessere organizzativo. È proprio in questo contesto che si inserisce il ruolo di Grafton: da un lato affianchiamo le aziende per andare oltre la semplice compliance normativa, costruendo strategie di attraction e retention realmente inclusive; dall’altro supportiamo i candidati, aiutandoli a riconoscere e valorizzare le proprie competenze, senza che la loro appartenenza alle categorie protette rappresenti un ostacolo, ma un elemento distintivo di valore”.
Creare un ambiente di lavoro autenticamente inclusivo non significa soltanto ampliare le opportunità di accesso, ma anche riconoscere e affrontare le paure più diffuse che molte persone con disabilità vivono nella quotidianità professionale. Comprendere questi vissuti è il primo passo per prevenire criticità legate all’inserimento, al senso di appartenenza, alla motivazione e, di conseguenza, alla capacità dell’organizzazione di trattenere i talenti nel tempo.
“Se guardiamo a profili tecnici specializzati e laureati con cui collaboriamo, c’è chi teme di essere valutato per la propria condizione e non per le competenze, o di dover dimostrare costantemente di essere all’altezza. Altri si scontrano con barriere organizzative invisibili, più che architettoniche, o con la mancanza di percorsi di crescita e di role model apicali che rendano visibile un futuro possibile.
A tutto questo si aggiunge la paura che si tratti solo di un’inclusione di facciata: ovvero l’essere inclusi solo per obbligo o per immagine. Affrontare queste paure significa passare da un approccio formale a uno realmente trasformativo, costruendo contesti in cui le persone con disabilità possano non solo essere assunte, ma sentirsi parte integrante e protagoniste del successo aziendale” – conclude Manzini.

