Il riscatto del nostro sistema paese, si è più volte detto, passa per il Mezzogiorno di Italia. Risolvere le ataviche questioni di povertà e arretratezza, sicurezza e illegalità è uno dei passaggi obbligati per rendere competitiva la nazione a livello globale. E’, inoltre, degno di nota come alle tante ricette applicate o semplicemente teorizzate non manchi mai l’ingrediente dell’innovazione. Ed è proprio questo il punto vero rappresentato a mio avviso dall’opportunità dell’economia della conoscenza non solo al Sud, ma anche al resto del Paese, dove, conviene ricordarlo, non sono solo le regioni meridionali  non reggere il confronto a livello europeo, ma arrancano nche le regioni del Centro e del Nord.
Basta leggere il “World Knowledge Competitiveness Index 2008”, il rapporto di qualche anno fa pubblicato dal Centro per la Competitività Internazionale dell’Università di Cardiff, per rendersene conto. Il documento ha classificato 145 diverse regioni nel mondo per misurare la capacità di competere nell’economia fondata sulla produzione di beni e servizi che incorporano volumi crescenti di conoscenza, non solo scientifica. In testa alla classifica ci sono otto regioni americane, l’area californiana di San Josè, la famosa Silicon Valley, è la prima assoluta; nell’ elenco c’è una sola regione europea (l’area di Stoccolma) e una regione giapponese (l’area di Tokio).Le regioni italiane classificate sono solo sei: tutte staccatissime. La prima è la Lombardia: posto numero 96. Seguono il Nord Ovest (100), l’Emilia Romagna (117), il Nord Est (119), il Lazio (123) e l’Italia centrale (126). In soli tre anni, quelli che ci separano dal penultimo rapporto pubblicato a Cardiff, la Lombardia, il Nord Est e l’Italia centrale sono arretrate di 12 posizioni, l’Emilia Romagna di 15 posizioni, il Lazio addirittura di 17. Solo il Nord Ovest mantiene le posizioni (è andato avanti di 1).

Cosa dicono questi dati?
A mio avviso (e lo considero il dato più importante) che non esistono “due Italie”. Che non c’è un’Italia ricca e innovativa (quella settentrionale), che corre come il resto del mondo e un’Italia povera e incapace (quella meridionale), che non tiene il passo neppure con le regioni meno sviluppate d’Europa. Dati che contraddicono chi di recente va sostenendo che non è più possibile parlare dell’Italia. Che occorre, ormai, parlare di “due Italie” dai destini irrimediabilmente divergenti. Un’Italia settentrionale che ha un reddito pro capite paragonabile a quello dei paesi più ricchi d’Europa e una capacità di vendere quei prodotti che storicamente definiscono il made in Italy, ossia: abbigliamento, arredamento, alimentari, apparecchiature industriali sui mercati internazionali seconda, nel mondo, solo alla Cina.
Completamente diversa sarebbe, invece, la situazione delle regioni del Mezzogiorno, dove la capacità di produrre ed esportare beni è bassissima e tende persino a peggiorare.Il problema economico della nazione sarebbe, dunque, unicamente quello del sud d’Italia (Brunetta docet).
Eppure non è così, non perché non esistano differenze profondissime tra le “due Italie”, ma perché entrambe hanno perso da tempo la capacità di creare Economia della Conoscenza. I dati del “World Knowledge Competitiveness Index 2008” confermano tutta l’arretratezza economica del Mezzogiorno, che non rientra neppure nella classifica delle 145 regioni della conoscenza, malgrado un’area metropolitana, quella partenopea, che vanta sette diversi atenei e Napoli, fino a venti anni fa quinta città industriale d’Italia.Tali dati, però, dimostrano anche come Centro e Nord fanno enormi passi indietro.
Da questa consapevolezza nasce la grande opportunità e la grande sfida. In Italia, l’unico vero bacino demografico con segno positivo per natalità e per età media degli abitanti è appunto il Mezzogiorno, in particolare la Campania, dove si concentrano la maggior parte di giovani e quindi anche di menti, di laureati e di proto lavoratori dell’economia della conoscenza. Il Sud è anche il luogo dove meglio nel corso del tempo si è definita la conoscenza non formalizzata, ossia quella artigianale, trasmessa non attraverso i libri, ma in maniera orale, una conoscenza che si è innovata semplicemente con l’esperienza e che potrebbe fare anche nei processi produttivi il vero salto di qualità, se si riuscisse a condividerla a metterla in rete, a trasferirla dalla bottega ai luoghi del sapere, che a loro volta dovrebbero trasformarsi in luoghi dove avvenga il peer-to-peer intellettuale, necessario a rilanciare e ricreare modelli di innovazione applicabili al mondo dell’industria non sono italiana, ma mondiale. E non sono pochi i ricercatori eccellenti in ogni campo che abbiamo esportato nell’ultimo lustro (250.000 giovani dalla sola Campania).
Come fare tutto questo?
Sviluppando maggiormente il ricambio generazionale nei luoghi di scienza e non solo, ma anche nelle aziende, nelle istituzioni; applicando una coscienza e un metro del merito oggettivo; premiando e dedicando budget ed attenzione mediatica e non a chi ottiene risultati di pregio nei propri settori; creando insomma le basi anche del riconoscimento del lavoro svolto sotto il profilo economico e morale; proponendo insomma un grande turn over anagrafico necessario all’innovazione per avanzare nei sistemi, perché i sistemi veramente innovativi sono quelli dove vi è un’alta concentrazione di capitale umano giovane, che fortemente motivato nella competizione e nella crescite è anche quello maggiormente disposto al cambiamento e alla novità, alla formazione e alla scommessa: innovare significa puntare al futuro e il futuro per definizione e di chi ha poco passato alle spalle.

Angelo Bruscino
Presidente Confapi Campania Giovani
da www.technologibiz.it

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