I prelievi bancari non giustificati al fisco non sono sempre la prova dell’evasione fiscale.

Ciò è quanto emerge da una recente sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Milano (sentenza n.1/32/2013), secondo la quale l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la connessione tra i movimenti in uscita e gli eventuali ricavi in “nero”.

Secondo i giudici, infatti, al contrario dai versamenti su conto corrente non giustificati e per i quali il fisco può presumere un’eventuale evasione fiscale (presunzione che può comunque sempre essere superata dal contribuente qualora dimostri che le somme versate sono già state tassate, oppure sono esenti da tassazione o ancora che sono frutto di donazione), in caso di prelievi devono sussistere ulteriori elementi che possano portare all’accertamento fiscale.

D’altronde, un qualsiasi prelievo dal conto corrente rappresenta per logica il sostenimento di un costo più che di un ricavo e apparirebbe illogico che un contribuente – per esempio un imprenditore o un lavoratore autonomo – avesse l’intenzione di non imputare un costo (che se portato in bilancio farebbe diminuire i ricavi e dunque la tassazione).

Per i giudici, dunque, è logico pensare che il contribuente voglia nascondere ricavi e non costi e quindi in caso di prelevamenti non giustificati ci devono essere ulteriori elementi che possano far presumere che si tratti di ricavi in nero.

Sempre su questo tema, infine, si consiglia di leggere la sentenza n.158/12/2007 della Commissione Tributaria Provinciale di Bologna (liberamente visibile su www.studiolegalesances.it – Sez. Documenti).

Anche in questo caso i giudici per evitare l’equazione prelevamenti = ricavi in nero (prevista dall’art. 32 del DPR n. 600/73) hanno stabilito che comunque può essere sufficiente che il contribuente indichi almeno i beneficiari delle somme che sono state prelevate.

 

Avv. Matteo Sances

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