Gentile Beppino Englaro, mi scusi, ma non capisco più la sua battaglia. Se è vero che la vicenda di sua figlia Eluana è una fatto che riguarda la sua famiglia è anche vero che la sua battaglia per il riconoscimento di un diritto privato è diventato un fatto pubblico. E sicuramente non indolore.
Sul suo cammino, per vedere riconosciuto un diritto, per lei giusto ed invalicabile, lei ha contribuito a far passare un messaggio stravolto: contrapponendo il diritto di libertà al diritto di cura, offendendo e negando, forse senza rendersene conto, lo stile di vita di famiglie che vivono e convivono, si battono per i propri cari in stato vegetativo. Io posso capire che per la sua concezione ed alla sua vista questa condizione sia insopportabile, ma non può liquidare i suoi interventi con una riga che dice “c’è chi la pensa in maniera diversa, e lo so bene”. Certo lo sa bene ma sa anche, e ne percepisce, le motivazioni? Mi creda, non sono ideologiche né di fede, sono motivazioni di vita. Molte, troppe famiglie vivono con tante Eluane e quotidianamente combattono per veder riaffermati i loro diritti di persone, anche se gravemente cerebrolese, per dare un senso alla propria vita e rivendicare la loro normalità.
Se la sua battaglia era vedere riconosciute le convinzioni sue e di sua figlia (obiettivo raggiunto), ora quale è il senso del suo operare? Le sue dichiarazioni di silenzio contrapposte ai suoi libri, ai suoi dettami sui media a cosa mirano?
Lei parla di non accettare “una vita senza limiti”. Ma qual è il limite? Il limite è un handicap lieve che non ti permette più una vita perfetta? Un handicap grave che ti fa diventare un peso per la società? Qual è il limite e chi lo definisce? Il demone non è la medicina. Non sono i medici. E lo afferma chi medico non è. Il problema è la nostra società, il nostro modo di affermare i nostri stili di vita. Il nostro modo di pensare. Il limite è il modo che noi abbiamo di popolare il nostro futuro.
Ci sarà ancora posto per una minoranza? E quale sarà?
Forse avrà ragione lei: non dovremo più rianimare, perché le persone potranno entrare in stato vegetativo. E quando questa situazione sarà persistente può darsi che, già da vive, queste persone non abbiano più il loro diritto di vita. E questo quello a cui lei pensa?
La mia esperienza, come lei sa, nasce anch’essa da una vicenda personale dopo la morte di mio figlio Luca a causa di un lungo coma che  mi ha poi spinto a dedicarmi a queste tematiche ed alle loro implicazioni per le famiglie. Qualcuno dice che sono stato, nella disgrazia, fortunato. Non credo sia così, ma certamente io stesso non so come avrei reagito, a lungo accanto a mio figlio con esiti di coma. Le posso però dire che la risposta a questa domanda la percepisco quotidianamente nelle famiglie che vivono questa condizione. Sono persone segnate ma orgogliose, impaurite ma coraggiose, che vanno accompagnate ed il cui percorso va condiviso. Sono famiglie che in qualche modo si ristrutturano attorno al proprio caro e che tutte insieme, con difficoltà, con gioia mista a disperazione vogliono riaffacciarsi alla società. Questi cittadini, consapevoli della loro vita, anche in silenzio, anche quando il loro richiamo di aiuto non viene raccolto, chiedono ad altri cittadini come loro, ai politici ed alla società civile di sentirsi responsabili. Anche per loro.
Noi, ed anche lei, ne dobbiamo essere capaci. Soprattutto dopo Eluana.
 
Fulvio De Nigris
Direttore Centro Studi per la Ricerca sul Coma
Gli amici di Luca

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