ReggiadiCasertaSe c’è un Paese ricco di beni culturali, beh!, quel Paese è l’Italia. La classifica UNESCO World Heritage List 2002/3 di giugno 2002 (Italia patrimonio culturale dell’umanità a cura di F. Arosio e P. Cecchini Istituto Nazionale di Statistica, Servizio Popolazione Istruzione e Cultura, Marzo 2003 http://culturaincifre.istat.it/sito/musei/PatrimonioUnesco.pdf) ci dice che l’Italia possiede la percentuale di beni culturali patrimonio UNESCO più alta, ben 6% sul totale mondiale (125 Paesi), ben 13,8% tra i primi 12 Paesi. D’altro canto si potrebbe dire, con un pizzico di presunzione, che basta guardarsi intorno per esserne certi e trovare conferma di questi dati; non è nemmeno necessario andare nelle grandi città d’arte, tra le viuzze dei tanti piccoli comuni che compongono il nostro bel Paese si nascondo tesori inimagginabili. Tutto questo patrimonio è frutto di una cultura che nei secoli passati si è chiamata mecenatismo e che ha visto le grandi famiglie che hanno fatto la storia del nostro Paese voler testimoniare la propria esistenza e la propria forza attraverso l’arte e la cultura. C’è stato in questo mecenatismo, sicuramente, una forte componente autocelebrativa del committente ma c’è stato anche tanto senso del dono e la volontà di condividere con gli altri l’arte e dunque la bellezza. Questo patrimonio che oggi ci fa essere i primi in classifica per ricchezza e bellezza è dunque frutto in buona parte dei contributi personali, di singoli cittadini, mecenati, che per motivi più o meno altruistici hanno voluto arricchire se stessi e le loro comunità.

Oggi il rapporto tra noi cittadini ed il nostro patrimonio artistico e culturale è, secondo me, condizionato da una forma di dipendenza mentale-culturale, prima ancora che realmente economica, dal servizio pubblico e dal finanziamento pubblico. Questo è un retaggio culturale consolidatosi in 150 anni di storia unitaria, in parte scaturita proprio dalla volontà di far nascere uno Stato che permettesse a chi lo ha creato di accentrare intorno a sé la maggior parte dei beni e dei benefici da essi derivanti. Di fatto per la maggior parte delle istituzioni culturali pubbliche il finanziamento dello Stato o degli enti locali rappresenta ancora la fonte primaria per la propria sostenibilità, con una quota che varia tra il 60% e il l’90% del budget complessivo”(Marianna Martinoni  “Il fundraiser nel settore culturale” Il Giornale dell’arte, Settembre 2014, http://www.ilgiornaledellarte.com/fondazioni/articoli/2011/12/111107.html )

C’è da dire che i nostri beni culturali negli anni passati si sono anche molto chiusi in se stessi, arroccandosi dietro ad un’idea di cultura compassata e “da intenditori”, che ha reso questo mondo troppo polveroso e pesante rispetto ad una quotidianità sempre più condizionata da esperienze veloci, digitali e sensoriali.

Tutti questi fattori messi insieme, le ristrette condizioni economiche, la sempre minore presenza di investimento pubblico, la decadenza strutturale a cui molti siti sono tristemente soggetti per carenza di fondi, l’allontanamento delle comunità dai propri beni culturali, stanno facendo nascere anche in Italia una nuova cultura, quella del fundraising per i beni culturali.

Alcuni esempi importanti sono sotto gli occhi di tutti, come l’opera del FAI, Fondo Ambiente Italiano, una fondazione nazionale senza scopo di lucro che dal 1975 opera per restituire al pubblico importanti testimonianze del patrimonio artistico e naturalistico italiano; basta andare sul loro sito per scoprire in quanti modi un cittadino comune può sentirsi partecipe attivamente nella causa sociale. Nella stessa ottica, ad esempio, nel 2005 a Napoli nasce l’Associazione per i Siti Reali e le Residenze Borboniche, il cui lo scopo principale è proprio quello di creare una rete cittadini-istituzioni-enti pubblici-privati-italiani-stranieri al fine di “conservare, valorizzare, gestire e sviluppare il patrimonio e le risorse culturali ed ambientali”.

Questa idea di aggregazione e di creazione di reti intorno al tema dei beni culturali è testimoniato anche dall’elevato numero di campagne di crowdfunding che vengono lanciate proprio in questo ambito: dal recupero di un bene (es.: campagna Made in cloister per il recupero del chiostro di Santa Caterina al Formiello a Napoli https://www.kickstarter.com/projects/1697002300/made-in-cloister), al restauro di un’opera d’arte (es.: Louvre, restauro della Nike di Samotracia), all’organizzazione di una mostra (tutta l’opera di Piero Della Francesca in un’unica mostra http://www.eppela.com/ita/projects/1915/piero-della-francesca), persino alla semplice stampa del catalogo delle opere contenute in un museo (es.: catalogo del museo di Varese http://buonacausa.org/cause/catalogomuseivarese).

Molti di questi progetti non sono solo campagne di crowdfunding ma vere e proprie operazioni di fundraising, guidate dall’idea che un bene artistico è soprattutto un bene comune e quindi tutti possiamo sentirci coinvolti nella sua salvaguardia e nella sua valorizzazione, esattamente come se si trattasse di una cosa nostra. In questo senso il fundraising non solo risponde ad una mancanza economica ma anche ad un bisogno sociale e soprattutto impone a chi gestisce queste risorse altrui la responsabilità e quindi il dovere di corrispondere alle esigenze dei donatori con trasparenza ed inclusione.

Una delle possibili definizioni di fundraising dice che “il fundraising è l’insieme delle attività di un soggetto collettivo volte a reperire risorse economiche necessarie a raggiungere gli scopi che esso si propone…” (F. Ambrogetti, M. Coen Cagli, R. Milano 1998 Manuale di fund raising. La raccolta di fondi per le organizzazioni non profit)

Questo significa che il fundraising è sì un mezzo per ottenere la sostenibilità economica ma è soprattutto un mezzo di coinvolgimento della collettività in una mission condivisa. È importante capire bene questa definizione poiché, se vogliamo seriamente affrontare il tema del fundraising per i beni culturali, è necessario innanzi tutto capire che fare fundraising ha a che vedere non solo con la richiesta di soldi ma anche e soprattutto con la pianificazione di un’opportuna strategia di coinvolgimento sociale. Se le statue, i reperti archeologici, i libri, i quadri sono il nostro patrimonio culturale, le persone sono il nostro patrimonio sociale: il fundraising ha lo scopo di mettere in relazione questi due patrimoni e di trarne frutto.

Al fine di incrementare il contributo dei cittadini e di favorire la nascita di un nuovo mecenatismo, dallo Stato arriva un primo segnale forte con il D.L. 31 maggio 2014, n.83, coordinato con la legge di conversione 29 luglio 2014, n.106, recante: “Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo”, che inserisce significativi incentivi fiscali per stimolare il contributo pubblico alla tutela, salvaguardia e valorizzazione del patrimonio culturale, aprendo al mecenatismo culturale, e introducendo, per i siti culturali ed i poli museali, la figura dell’amministratore unico o manager museale (http://artbonus.gov.it/).

Il manager museale potrebbe ben rappresentare il trait d’union tra l’istituzione pubblica (ministero, sovrintendenza, regione, comune) ed un team di esperti nel campo del fundraising, della comunicazione, del social media marketing. Con una appropriata pianificazione strategica che abbracci tutti questi aspetti, lo sgravio fiscale assume il giusto ruolo, ovvero di incentivo alla donazione. Viceversa l’art bonus non porterà mai ai frutti sperati poiché dietro ad ogni singolo progetto non vi sarà una opportuna strategia di fundraising e soprattutto una opportuna strategia di comunicazione.

In riferimento all’importanza della comunicazione ed al ricorso a strumenti sempre più vicini alle persone, molte istituzioni culturali stanno ben sperimentando il potere dei social network. L’esempio più lampante è sicuramente quello del Met di New York che è diventato una vera e propria social media star con una presenza costante su Facebook, Twitter, e Pinterest (oltre un milione di followers sparsi nel mondo). In Italia sono molte le istituzioni culturali che stanno seguendo questo modello: penso ai Musei Capitolini ed all’Istituto Treccani, ad esempio. Comunicare un bene culturale così, significa aprirsi a nuovi target, significa prepararsi ad accogliere non solo l’appassionato d’arte, l’intenditore, la scolaresca “costretta”, ma un mondo di persone che hanno scelto di essere lì perché quel bene culturale è “figo”, perché “sta su facebook” e “pubblica post bellissimi”. La comunicazione non è più statica ma assolutamente dinamica e funzionale al fundraising, puntando a far sì che la community da virtuale possa diventare reale frequentatrice, fruitrice e sostenitrice del bene culturale.

Tutto questo per dire che ci sono bei segnali che il binomio beni culturali-fundraising sia assolutamente possibile anche in Italia. E se mi fermo un attimo a pensare alla straordinarietà del nostro patrimonio, direi: -E se non qui… dove?-.

Valeria Romanelli
R&Rconsulting