Il calembour del titolo è bieco, lo so. L’allusione al motto con cui Pazienza, giocando (ma non troppo) definiva il suo talento, scoperta. Ma non ho trovato di meglio. Che Petrolini, Totò e Andrenza mi perdonino. La domanda resta lì, stanca, appassita, eppure continua a brillare nel buio fesso dei rimpianti: cosa avrebbe combinato un genio precoce in tutto, se ne avesse avuto il tempo? La stessa domanda che Sergio Staino si-ci fece in una sala del Museo, qualche mese fa, parlando dell’orizzonte creativo che Pazienza trentaduenne aveva di fronte a sé, con la sua fantasia ragazza, fertile e senza fondo. “Forse un giorno avrebbe fatto il cineasta…”. E lì non ci sarebbe stata trippa di argomenti per Renato De Maria, il regista di Paz! Chissà. Stantia o no, la domanda è lecita; me la faccio anch’io, che sono diventato un lettore di Pazienza a trent’anni, dopo avere abbandonato Lee e Buscema, Bonelli e Galep, Bunker e Magnus; che da tempo non leggo più fumetti, tranne i suoi; che rileggo per la ventesima volta Pompeo e ingoio sempre lo stesso stupore. Pompeo: uno dei poemi più formidabili che abbia incontrato sulla mia strada. Dico “formidabili”, perché ho avuto col personaggio un approccio puramente emozionale, come se vi fossi entrato coi nervi scoperti, senza la pelle della riflessione; come se quel libro “tutto sentimento fosse diventato per me”, per parafrasare Kavafis. È un grave errore, quello di chi leggendo va alla deriva e non cerca approdi, ma lo commetto con gioia. Le altre opere di Pazienza no, quelle le “affronto” meglio. Cioè cerco di comprenderle, finché dal cuore e dall’immaginazione non sia caduto l’ultimo granello di sabbia. Poi le ammiro anche, ma senza farmene irretire sentimentalmente. Leggere un’opera figurativa è molto più difficile che leggere un testo letterario, fosse anche il più magmatico e misterioso: troppi sono i rimandi ad altre opere, ad altri testi; troppe le competenze (storiche, tecniche, antropologiche) che si richiedono al lettore. Con Pazienza, il lavoro è complicato dal fatto che in lui l’elemento grafico e quello poetico-narrativo sono in perfetta osmosi. È ciò che mi stupisce di più: più della sua precocità prodigiosa; più del suo itinerario fantastico, infiammato da traiettorie e deviazioni impensabili; più della capacità eclettica, con cui si inventava uno stile nuovo in ogni segno, assecondando nello stesso tempo le esigenze del racconto e la sua fecondissima pigrizia. Qualcuno, a proposito del suo linguaggio, ha parlato di iperitaliano: come dire, un italiano oltre l’italiano, un percorso disseminato di smottamenti linguistici, iridescenze dialettali saldate al corpo della parola letteraria; un pastiche che digerisce con esiti di straniante comicità citazioni più o meno colte (dai poeti russi a William Blake) e impennate pugliastro-meridionali. Una lingua (re)inventata, perché suggerita dalla fantasia anarchica di un parlato immaginato, che concentra tutto il suo senso nel nucleo, non nel capo o nella coda. Allo stesso modo, lo stile della narrazione è il frutto di un impasto senza precedenti: il comico, il grottesco, il tragico della commedia-parodia umana, che aspetta al varco i suoi protagonisti per chiedergli di pagare il conto. La vita irrompe nelle sue tavole come mai era accaduto nell’opera di un cartoonist. Mai? Ehm… Ho appena ammesso che so poco di fumetto e faccio il sentenzioso? Allora dico: mai con la stessa scandalosa efficacia. Scandalosa e dolorosa. Perché con Paz si ride spesso di dolore. Era il 1977, quando un Andrea poco più che ventenne fu travolto, creativamente, emotivamente, dall’onda d’urto di un terremoto che lo disorientò e instradò sulla via del racconto di un’epoca: era l’inizio, che egli aveva confuso con uno sprazzo. Quell’affermazione, in una nota all’esordio sulla rivista Alter Alter nel marzo del ‘77 (“Madonna, vi giuro, credevo fosse uno sprazzo, era invece un inizio. Evviva! Andrea Pazienza, 16 marzo ‘77”.) era un modo di prendere il fiato o la presa di coscienza di una storia che bruciava le strade? Erano gli anni bolognesi: il grande romanzo della sua formazione è popolato di eroi-antieroi, personaggi di rincalzo, caricature, comparse, vittime e carnefici Li conosciamo tutti per nome: Pentothal, Zanardi, Colasanti “Colas”, Petrilli “Pietra” sono i frammenti di uno specchio deformante. Il suo, quello di una generazione… Ecco, non volevo usare la parola magica e l’ho fatto: generazione. Non lo farò più, lo giuro: con tutta la sua capacità di assorbire gli umori (anche i più mefitici) della realtà in cui era immerso, con il suo istinto proteiforme di inventore-narratore per immagini, Pazienza non era organico a nulla. La sua era una “solitudine troppo rumorosa”. Certo, l’arte è una cosa che passa per le strade; le stesse per le quali Andrea andava a caccia della vita, cercando le facce con cui popolare le sue tavole, l’universo ancora inesploso che gli si agitava dentro. Ho parlato della vita, che è per definizione il centro di attrazione, l’aria e l’acqua di un artista. C’è ancora chi crede che esistano un’arte per le accademie e una per le osterie. Il fumetto apparterrebbe alla seconda categoria: credo che l’equivoco – noioso come un dibattito sulla distinzione tra erotismo e pornografia – nasca dalla sua natura ibrida, oltre che dalla sua genesi proletaria: l’essere una miscela di forme espressive, senza appartenere totalmente a nessuna: c’è il disegno, ma non si tratta di pittura; il testo, ma non si tratta, in senso stretto, di poesia o narrativa.

Come nel cinema, in cui coesistono l’elemento figurativo-visivo (il colore, la luce, la fotografia: ma non chiamiamo in causa Giorgione e Tina Modotti, direbbero i cruscanti), quello testuale (la sceneggiatura: ma dov’è la letteratura? Ancora loro), quello scenico e recitativo (vuoi mettere Giorgio Strehler e Salvo Randone? Vabbè…). Sarà un caso, ma a Pazienza il cinema piaceva assai.

 
 

(Articolo pubblicato su Caro Andrea, numero speciale della rivista Quaderni dell’Orsa, dedicato ad Andrea Pazienza.)

di Canio Mancuso                              

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